FNOPI: togliere il numero chiuso Università e riorganizzare il lavoro dei Professionisti Sanitari
Abolire il numero chiuso nelle facoltà di Medicina (e quindi prima o dopo anche per le professioni sanitarie che a medicina fanno capo e i cui professionisti sono altrettanto – se non di più – carenti) è un principio che andrebbe incontro, oltre alla richiesta delle stesse professioni di ampliare il numero dei laureati, anche alle indicazioni Ocse e Oms secondo cui il numero di infermieri laureati negli ultimi 20 anni è più che quadruplicato, grazie a un migliore iter formativo e a un cambiamento nei requisiti d’ingresso per incentivare l’iscrizione. Ma non basta sottolineano Ocse e Oms: il numero di infermieri laureati rimane il quinto più basso nell’Ocse (20,6 per 100 000 persone rispetto alla media Ocse di 46).
La Federazione nazionale degli Ordini delle professioni infermieristiche (FNOPI), il maggior Ordine italiano con i suoi oltre 440mila iscritti, prende posizione sull’idea di abolizione del numero chiuso nelle facoltà di medicina che non coinvolgerebbe solo i medici, ma anche le professioni sanitarie che a queste facoltà fanno capo.
Non si può solo dire “facciamo come in Francia”: abbiamo strutture, personale e risorse per oltre 100mila iscritti contro i 14-15mila del numero programmato per la sola laurea in infermieristica (i più numerosi tra gli iscritti alle facoltà a numero chiuso)? Senza parlare di tutte le altre facoltà? C’è un problema di risorse molto importante da risolvere per poter importare un impianto in cui nel primo anno si gioca l’intero sistema.
L’Università italiana ha le forze culturali per farcela, ma non ha le risorse.
Per abolire il numero chiuso servono almeno tre condizioni: risorse per poter includere gli studenti al primo anno facendo loro fare tutte le attività formative previste dal curriculum di studi europeo; un rigoroso sistema di sbarramento finale; una dotazione fatta di esami sostenuti più un’altra prova selettiva, che potrebbe essere necessaria.
L’idea di abolire il numero chiuso non è nuova. Sono almeno 4-5 anni che torna periodicamente alla ribalta delle cronache e si affianca all’ipotesi di introdurre in Italia un modello analogo a quello francese. Già quattro anni fa, nel 2014, Andrea Lenzi, allora presidente del Consiglio Universitario nazionale e oggi Presidente del Comitato Nazionale per la Biosicurezza, le Biotecnologie e le Scienze della Vita della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Comitato Nazionale dei Garanti per la Ricerca del MIUR, giudicando difficile un’apertura totale delle facoltà oggi a numero chiuso, aveva ipotizzato una pre-selezione già al liceo (ad esempio al terzo anno) con un periodo di introduzione alle varie facoltà e un orientamento verso il tipo di studi che si vuole poi intraprendere. Poi, alla fine del primo anno di corso, in base a come sono andati gli esami lo studente può proseguire la facoltà, sceglierne un’altra oppure uscire.
Un orientamento fatto durante le superiori, in modo che non si presentino centinaia di migliaia di studenti per un numero di posti comunque limitato, cosa che non accade in nessuna parte del mondo.
Ma al di là delle possibili vie da percorrere ancora tutte aperte a quanto sembra leggendo anche il Def, c’è però un problema a monte da dover risolvere: dare spazio a più laureati non può significare creare più disoccupati. Il sistema attuale, tra blocchi del turn over e carenza di risorse non dà spazio a un numero eccessivo di professionisti sanitari, in nessuna professione.
E per la professione infermieristica in particolare c’è un’altra considerazione da fare: i nostri studenti, anche con il numero chiuso, rappresentano oltre il 40% degli studenti universitari, ma i “professori infermieri” sono troppo pochi: solo 4 ordinari, 23 associati e un numero basso di ricercatori per un totale di circa 41 docenti. Solo in 22 università quindi gli studenti hanno l’opportunità di seguire corsi di insegnamento del settore scientifico disciplinare MED45 tenuti da docenti inseriti nell’organico dei professori universitari. Con questi numeri, il rapporto docente/studenti è di circa 1 a 1.350, mentre, ad esempio, per i corsi di laurea in odontoiatria, considerando i docenti afferenti al settore malattie odontostomatologiche MED 23, il confronto è 1 a 6. Questo significa che c’è una forte necessità di una revisione delle docenze, probabilmente prima di una possibile revisione del numero chiuso.
Anche perché abolire tout court il numero chiuso non può significare illudere giovani che sono pronti a dedicare anni della loro vita allo studio e alla formazione, ma che poi rischiano di non trovare alcuno sbocco che soddisfi la loro vocazione.
Prima del numero chiuso è sicuramente necessario intervenire, quindi, sull’organizzazione del lavoro e di questo il Servizio sanitario nazionale ormai soffocato dalle carenze di organici ne ha davvero bisogno.